Una seggiolina, un cappellino, tanto tempo a disposizione e tanta voglia di liberare i pensieri. Ecco il momento migliore per un buon libro, ed ecco un libro scritto dallo stesso autore del network di Coltivare l’orto. La fantasia vola oltre le aiuole, e si perde nei sentieri di una favola mistica del ventesimo secolo. Un libro rifiutato da centoventi editori, perché “fa pensare troppo”. Ma quali pensieri talmente impegnativi possono aggiorarsi nella mente dell’autore, un semplice coltivatore di pomodori?
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Cercando Poimandres è un testo assolutamente particolare, non ascrivibile a nessuno dei filoni letterari classici. Per questo l’autore ha scelto di inserirlo in un nuovo genere: la mistica fabulata. La mistica è quella attività della mente umana, di tipo spirituale, che si occupa del mistero di Dio, quindi si supporrebbe che lo facesse in modo serioso. Qui però l’autore tratta argomenti di alta spiritualità raccontandoli in una cornice fiabesca. In questo modo, usando uno stile leggero ed un linguaggio fluente, rende la lettura piacevole nonostante la serietà degli argomenti. Se all’inizio la narrazione può richiamare l’irrazionalità geniale di Calvino o anche, in alcuni tratti, l’umorismo sofisticato di Wodehouse, nel seguito acquista un tono del tutto originale: le vicende assurde di un viaggio iniziatico alla scoperta dei motivi dell’esistenza si dipanano in mondi irreali, o forse in universi altri, o forse negli spazi angusti della mente delirante del protagonista.
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L’incipit
Frigeste di Liberaterra si vedeva bello come un dio orientale. Procedeva senza timore nel canneto, verso il sole nascente sul profilo dell’orizzonte. I raggi taglienti correvano quasi paralleli al suolo e si rifrangevano sulle decorazioni metalliche della sua armatura, traendone potenti bagliori. Una mano si alzava metodica ad allontanare le canne più invadenti, l’altra era stretta all’elsa della solida spada quasi a voler proclamare: si faccia avanti chi vuole, e troverà pane per i suoi denti!
La giornata iniziava splendidamente. L’incedere ardito di Frigeste lasciava intendere che avrebbe certamente raggiunto la meta, e portato a termine i suoi obiettivi.
Il grande piede calò dall’alto come un falcone in caccia che ghermisce la preda; con la differenza che, mentre il rapace afferra e trascina via, quello spiaccicò Frigeste al suolo, e, scivolando leggermente, lo sfrittellò senza riguardi né compassione alcuna, lasciandolo lì esanime. Fortuna volle che, prima di lui, il grande piede avesse pestato una grande merda, una parte generosa della quale, essendo rimasta appiccicata alla suola, funse da morbida intercapedine salvifica. Questa circostanza, rafforzata dalla natura irregolare del sentiero, rese possibile che egli potesse sopravvivere, anche se vistosamente malconcio.
Le rane, solitamente educate, commentarono: «Accidenti, che fortuna!».
Altre creature, come i rospi e i saettoni, fecero osservazioni più adeguate alla sana volgarità degli abitanti della Palude, per cui sarà opportuno non riferirle.
Per una curiosa circostanza, inspiegabile ma utile all’economia del racconto, le peggiori conseguenze le subì la sua personalità, o anima, o spirito che dir si voglia, insomma quel velo impalpabile che alcuni affermano non esistere (essendosi presa la briga di porre un moribondo su una bilancia attendendone pazientemente la morte, non senza averne verificato il peso sia prima che dopo, e avendolo riscontrato immutato).
Strascinata dal grande piede, l’anima s’impigliò alle irregolarità del terreno e si lacerò dissociandosi in più parti. Da quel momento ciascuna parte visse di vita propria, pur nella incontenibile nostalgia di una antica appartenenza comune. Effettivamente ciascun brandello d’anima sapeva di poter esistere solo assieme a tutti gli altri.
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